AMORIS LAETITIA: UNA ROAD MAP PER LE RELAZIONI FAMILIARI

La famiglia:
Crocevia di relazioni e opportunità.
Oristano 4 settembre 2016

AMORIS LAETITIA: UNA ROAD MAP PER LE

RELAZIONI FAMILIARI

Autore: p. Alfredo Feretti omi

 

 

Un senso di gratitudine pervade il mio animo davanti al dono che papa Francesco ha fatto a tutti noi con questa esortazione post-sinodale intitolata, non a caso, Amoris Laetitia (AL). Il titolo rivela già l’intenzione di parlare non tanto della famiglia e dei suoi problemi ma dell’amore che costituisce il costrutto ontologico di ogni persona umana e la dinamica fondativa della famiglia stessa. E l’amore è coniugato immediatamente con la gioia (Laetitia) che è vocabolo tra i più ricorrenti del magistero di Papa Bergoglio. La famiglia è il campo in cui si gioca e si esperimenta la “gioia dell’amore” pur nella complessità e nell’intreccio delle relazioni umane e soprannaturali che la costituiscono.

E’ un testo “semplice”, accogliente, attento: traspare una gioia profonda nel parlare di famiglia!
E’ un testo “complesso”, ricco, non riassumibile per slogan e nemmeno attraverso le deleterie contrapposizioni che alcuni commenti di questi mesi hanno usato come chiave di lettura.
E’ un testo ampio, da non leggere di corsa: … non consiglio una lettura generale affrettata. Potrà essere meglio valorizzata, sia dalle famiglie sia dagli operatori di pastorale familiare, se la approfondiranno pazientemente una parte dopo l’altra, o se vi cercheranno quello di cui avranno bisogno in ogni circostanza concreta (AL7).
L’ampiezza è data dal fatto che in essa confluiscono i lavori di due Sinodi (uno straordinario e uno ordinario) e le numerose catechesi e interventi del Papa durante l’anno di preparazione come pure la riflessione maturata negli anni di vita pastorale di Papa Francesco.
E’ un testo che ha “i piedi a terra” (AL6), che entra nel vissuto della famiglia e cerca la chiave per una lettura adeguata non accondiscendente alla moda del momento ma rispettosa delle esigenze della misericordia e della giustizia.
Al suo interno si coglie una grande passione per l’ascolto e per l’accompagnamento e si propone non come parola conclusiva ma come orientamento per ulteriori riflessioni e soluzioni più inculturate (AL 3).
E’ un documento che stimola la maturità di tutti noi a farci carico della storia nel suo concreto divenire, allontanandoci dalla pretesa arrogante di proporre giudizi e soluzioni applicabili a tutti e comunque.
Uno dei princìpi ispiratori della prassi pastorale di Papa Francesco è la superiorità del tempo sullo spazio (EG 222 e AL 3): Si tratta di generare processi più che di dominare spazi (AL 261). E questo spinge ad uscire da un’impostazione di conservazione di “uno spazio acquisito” per aprirci a processi nuovi sia nel campo della formazione sia nel proporre strade nuove di aiuto e di sostegno alle persone e alle famiglie.
Sono passati ormai alcuni mesi da quando questa Esortazione è stata pubblicata; per questo non ne farò una sintesi che rischi di trascurare alcune parti interne che sono il “corpo” di tutta la sua presentazione. Piuttosto, in ragione del contesto attuale di servizio consultoriale alla famiglia, cercherò un approccio trasversale che sottolinei, nel testo di Francesco, gli elementi di sintonia con la nostra visione della persona, della coppia e della famiglia, con la nostra metodologia e accogliere i numerosi stimoli innovativi per un’azione sinergica tra noi operatori di consultorio e tutti coloro che hanno a cuore la famiglia in tutte le sue plurali manifestazioni.

ETICA DELLA CURA
In un’intervista a Michela Marzano in cui le si chiedeva:
La fiducia è legata alla natura stessa dell’esistenza umana, al fatto che non siamo mai completamente indipendenti dagli altri e autosufficienti. La fiducia ci obbliga a un passo nell’ignoto, ma allo stesso fa parte della nostra stessa condizione umana. L’incertezza del legame con l’altro che, a dispetto di tutto, rimane fragile; la certezza delle risorse interiori che possono permettermi di sopravvivere anche se l’altro mi tradisce. La scommessa della fiducia è la scommessa dell’uomo. Tutto questo rimanda alla fragilità e, al tempo stesso, alla ricchezza della condizione umana. Quindi è possibile riconoscere in questo una nuova e più completa intuizione della Verità? Cioè, secondo lei siamo pronti a guardare a questa Verità che è indipendente e interdipendente, interna e connessa al mondo? E siamo pronti a guardare alla verità degli altri senza temere di perdere i nostri confini e le nostre verità e quindi senza temere di cadere in confusione?
La Marzano così risponde:
Ma il problema è che dovremmo cercare di ripartire da lì se vogliamo “riparare il mondo”, questa non è un’espressione mia, ma viene da Joan Tronto, che è una filosofa americana autrice di Ethics of care, “Etica della cura”, dove si spiega che se noi vogliamo ricostruire il vivere insieme dobbiamo cercare di riparare il mondo e riparare il mondo significa riparare le relazioni. Se però vogliamo riparare le relazioni, dobbiamo ripartire appunto dalla fiducia, dove la fiducia che si dà agli altri è per definizione una scommessa nel senso che non sappiamo mai che cosa l’altro farà di questa fiducia, se l’altro sarà capace di onorarla, oppure se l’altra persona tradirà la fiducia che noi gli stiamo dando. Nel momento in cui decidiamo e scegliamo di fare questa scommessa di fiducia nei confronti degli altri, ci mettiamo automaticamente in una situazione di dipendenza perché dipendiamo dalla loro risposta alla nostra apertura. Al tempo stesso, se si dovesse smettere di scommettere sugli altri, sulla relazione, nonostante l’intrinseca dipendenza che la relazione scatena, probabilmente il mondo invece di ripararlo lo si frantumerebbe definitivamente. Ecco perché, secondo me, si tratta della sfida del futuro, perché è da lì che dobbiamo ripartire, calcolando che non è mai facile fare i conti con questa dipendenza tanto più che è una dipendenza che non è mai totale, c’è una differenza: io nel momento in cui do fiducia a una persona dipendo dalla sua capacità di rispettarla ma questa dipendenza non è mai una dipendenza totale e assoluta proprio perché indipendentemente dalla risposta altrui il mio valore resta e, quindi, resta quel famoso concetto che i filosofi conoscono bene, resta quell’autonomia che fa sì che io non mi sbriciolo nel momento in cui l’altro dovesse tradire la mia fiducia. Quindi se noi vogliamo riparare il mondo e riparare le relazioni, dobbiamo ripartire da questo rapporto tra autonomia e dipendenza, sapendo che l’autonomia non è contraddittoria rispetto alla dipendenza e viceversa.

Questa lunga citazione mi permette di individuare una angolatura dalla quale leggere tutto il nostro documento; Amoris Laetitia si prende a cuore le relazioni, si fa carico delle preoccupazioni e della sollecitudine per tutte le relazioni che formano il tessuto familiare esprimendo tutta la prossimità ad ogni volto, anche imperfetto, di queste relazioni.
Prendo allora l’Etica della cura e la spiritualità della cura (AL 321-325) come coordinate per leggere l’intero documento.
La varietà dei significati del termine cura impone una semplice chiarificazione: cura è il prendersi carico di accudire una persona particolarmente vulnerabile. Dove però la vulnerabilità si estende all’intera condizione umana e non solo a gruppi particolarmente deboli, come possono essere i bambini, gli anziani o i disabili. Sarebbe riduttivo infatti restringere la cura solo a questi ambiti. La cura abbraccia il dispiegarsi di tutte le relazioni umane e AL ne dà conto in tutto il suo sviluppo.
Ma andiamo con ordine.
Perché la cura riveste una tale importanza nel nostro contesto sociale? La risposta possiamo cercarla negli apporti che sono arrivati ai due Sinodi che hanno preparato AL, apporti che hanno evidenziato le tendenze culturali che influiscono sulle scelte e sui comportamenti nei riguardi della famiglia e che richiedono “il prendersi cura”.
Per quanto riguarda la famiglia, AL (33) a seguito delle profonde trasformazioni sociali e dei cambiamenti antropologici e culturali che hanno segnato l’ultimo secolo tematizza alcuni elementi che sembrano richiedere un’inversione di rotta e un’attenzione particolare:
La cultura individualistica del possesso e del godimento
Il ritmo di vita attuale, lo stress, l’organizzazione lavorativa
La crisi del lavoro
L’invecchiamento della popolazione in alcuni paesi
La precarietà che tocca vari settori della convivenza sociale
La ricerca di autenticità
La valorizzazione della libertà di scelta
Un approfondito senso della giustizia
La solitudine
In questo contesto la “cura” diventa risposta di prossimità concreta e fattiva nel cammino faticoso delle famiglie che sono spesso aggredite da questi agenti esterni e interni (AL 39-47), che indeboliscono le loro difese.

Nel nostro servizio consultoriale, la grande maggioranza dei “casi” ha a che fare con crisi coniugali, con la fatica di coniugare autonomia e dipendenza, con una precarietà poco o per niente sostenuta dalle politiche familiari, con solitudini, con la presenza di disabilità, fino alla miseria, con la violenza intra familiare e alcune forme di dipendenze che, oltre quelle già conosciute, hanno preso piede e sono una piaga sociale (vedi la dipendenza dal gioco d’azzardo).
L’Etica della cura, partendo dal nostro comune essere figli, spinge al superamento di una visione dove l’individuo è autosufficiente, autonomo (nel senso letterale) libero da ogni dipendenza considerata negativa. Come la vulnerabilità, nel pensare comune, è associata a debolezza, fragilità, così la dipendenza è sinonimo di sconfitta, di perdita di autonomia e di libertà.
AL ha il coraggio di prendere la categoria della fragilità, della frangibilità, e metterla al centro anzi definendo “l’attenzione dedicata alle persone con disabilità un segno dello Spirito” (47). Che è come dire che l’attenzione a ciò che non è perfetto, raggiunto, coerente…è segno dell’azione dello Spirito.

LA CURA DELL’AMORE
La vulnerabilità suscita la cura dell’altro. E la propensione alla cura attinge a ciò che abbiamo di costitutivo di noi stessi: siamo fatti per amare.
E’ strano: quando si entra in questo campo, si avverte un certo fastidio, una certa voglia di camuffare o di cercare sinonimi. Quando invece ognuno di noi sa con certezza che, accanto alla preparazione professionale, è l’amore che permette uno sviluppo e una riparazione di tante situazioni di disagio.
Pare che parlare d’amore sia qualcosa di infantile, ridicolo, adolescenziale. Al limite che si deve chiedere permesso per poterne parlare senza farsi ridere in faccia. E’ più facile coinvolgere una piazza, una platea televisiva, uno stadio in cori di sfottò, di presa in giro pesante piuttosto che elevarci ad un livello di umana e degna tolleranza che smorzi questa rabbia dilagante.
Ora per parlare d’amore è necessario accettare le differenze, tutte le differenze, e soprattutto accogliere ciò che non è perfetto, ciò che non corrisponde ai” princìpi”, ciò che apparentemente non ci rassicura, ed entrare in situazioni che potrebbero anche sporcarci di fango. Comprendo coloro che preferiscono una pastorale più rigida che non dia luogo ad alcuna confusione. Ma credo sinceramente che Gesù vuole una Chiesa attenta al bene che lo Spirito sparge in mezzo alla fragilità: una Madre che, nel momento stesso in cui esprime chiaramente il suo insegnamento obiettivo, «non rinuncia al bene possibile, benché corra il rischio di sporcarsi con il fango della strada». (AL308)

L’esperienza del consultorio fin dai suoi albori, si conferma come il luogo dell’accoglienza e della tolleranza, il luogo della custodia di ciò che non è perfetto e della promozione di tutto ciò che è presente magari in forma embrionale ma può diventare risorsa verso una maturazione e una chiarezza maggiore (cfr. AL 76-79). E’ sempre rischioso immaginarci sulla sponda dei “salvati” che mandano “salvagenti”, o arroccati sulla trincea di coloro che hanno la verità in attesa della resa di coloro riteniamo più deboli. Davvero siamo noi la nave per salvare i profughi? Uno dei nostri compiti specifici credo sia quello di individuare la forza delle relazioni anche le più … deboli!
Si trovano ancora operatori che si domandano come “far passare i nostri valori” all’interno del nostro servizio, mettendosi alla ricerca quasi di “funzioni catechetiche o di indottrinamento” camuffate di chiarezza e di voglia di non rinunciare, una ripetizione di un “non possumus” pena la perdita di identità.
Siamo chiamati a formare le coscienze, non a pretendere di sostituirle. (AL 37)
La verità è una relazione! Tant’è vero che anche ciascuno di noi la coglie, la verità, e la esprime a partire da sé: dalla sua storia e cultura, dalla situazione in cui vive, ecc. Ciò non significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt’altro. Ma significa che essa si dà a noi sempre e solo come un cammino e una vita (Papa Francesco a E. Scalfari).

L’etica della cura domanda allora la presa in carico della capacità di amare delle persone che formano poi la coppia e la famiglia. Presa in carico prima di tutto come un mistero per evitare di ridurlo a un movimento di neuroni che se pur importante non esaurisce la “dicitura” dell’amore stesso. Ma anche la presa in carico dell’amore nelle sue declinazioni fenomenologiche.

E’ qui che si inserisce il capitolo IV di AL dedicato all’amore, quasi un libretto a parte, un piccolo manuale intessuto di spiritualità e di umanità, di concretezza e di stimoli. “Dacci oggi il nostro amore quotidiano” diceva ai fidanzati. Sull’amore infatti si gioca tutta la questione antropologica e orienta anche la nostra azione consulenziale.
Le declinazioni dell’amore coniugale e familiare sulla scorta del cosiddetto Inno alla carità di s. Paolo sono un vero programma di formazione.
Questo capitolo costituisce un trattatello dentro la trattazione più ampia, pienamente consapevole della quotidianità dell’amore che è nemica di ogni idealismo: «non si deve gettare sopra due persone limitate il tremendo peso di dover riprodurre in maniera perfetta l’unione che esiste tra Cristo e la sua Chiesa, perché il matrimonio come segno implica “un processo dinamico, che avanza gradualmente con la progressiva integrazione dei doni di Dio”» (AL 122).
Ma d’altra parte il Papa insiste in maniera forte e decisa sul fatto che «nella stessa natura dell’amore coniugale vi è l’apertura al definitivo» (AL 123), proprio all’interno di quella «combinazione di gioie e di fatiche, di tensioni e di riposo, di sofferenze e di liberazioni, di soddisfazioni e di ricerche, di fastidi e di piaceri» (Al 126) che è appunto il matrimonio.
Il capitolo si conclude con una riflessione molto importante sulla «trasformazione dell’amore» perché «il prolungarsi della vita fa sì che si verifichi qualcosa che non era comune in altri tempi: la relazione intima e la reciproca appartenenza devono conservarsi per quattro, cinque o sei decenni, e questo comporta la necessità di ritornare a scegliersi a più riprese» (AL 163). L’aspetto fisico muta e l’attrazione amorosa non viene meno ma cambia: il desiderio sessuale col tempo si può trasformare in desiderio di intimità e “complicità”. «Non possiamo prometterci di avere gli stessi sentimenti per tutta la vita. Ma possiamo certamente avere un progetto comune stabile, impegnarci ad amarci e a vivere uniti finché la morte non ci separi, e vivere sempre una ricca intimità» (AL 163).

AL sa prendersi cura della gioia dell’amore (126) e per questo spiega le regole della grammatica dell’amore:
I linguaggi dell’amore (127)
Lo stupore e la contemplazione (128)
I doni (129)
Il tempo di qualità (137)
Il riconoscimento reciproco (138)
L’empatia (138)
Il discernimento personale (139)
Il linguaggio dei gesti (140)
Ricchezza interiore (141)

Costruzione di un linguaggio d’amore che attraversa tutte le tappe della sua evoluzione. E in questo Al diventa pedagoga.
1. Bisogno e scelta.
Le nostre persone sono un «impasto» di bisogni e di scelte, che scandiscono le stagioni della nostra vita:
* da bambini avevamo bisogno – di sicurezza,
– di attaccamento,
– di identità….
* da adolescenti avevamo bisogno – di autonomia,
– di contatto,
– di riconoscimento….

Ma sempre è presente in noi il «bisogno» – di amare
– di essere amati.
Questo bisogno fondamentale è espresso in termini chiari in un testo divenuto slogan di S. Giovanni Paolo II: “L’uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l’amore, se non s’incontra con l’amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente”.
Ogni relazione umana tende a concretizzare questo bisogno d’amare e di essere amati, sviluppandone i diversi volti:
– la tenerezza nei legami familiari,
– la fedeltà nell’amicizia,
– la solidarietà nei rapporti sociali,
– la comunione nella vita ecclesiale,
– l’intimità nella vita coniugale.

L’amore allora è solo un «bisogno» da soddisfare?
L’amore è un «bisogno» più profondo che coinvolge tutta la persona (istinto-sentimento-intelligenza-volontà); che può essere soddisfatto solo nell’incontro di due persone che si scelgono nella loro diversità, per donarsi nella complementarietà-reciprocità.

Amare è un bisogno che diviene «scelta» consapevole che inizia nell’innamoramento,
– che si sviluppa fino alla decisione di unire le proprie vite nel matrimonio,
– che si approfondisce per tutta la vita.
“L’amore infantile segue il principio: «amo perché sono amato». L’amore adulto segue il principio: «sono amato perché amo». L’amore immaturo dice: «ti amo perché ho bisogno di te». L’amore maturo dice: «ho bisogno di te perché ti amo». (E.Fromm)

2. Dono e responsabilità.
Due persone che
– si incontrano per un primo istinto d’amore,
– che si riveste di emozione-sentimento,
– in attesa di divenire scelta-decisione,
Sperimentano
– il proprio «limite» nella capacità di donarsi, di affidarsi, di amare e di lasciarsi amare,
– la propria aspirazione all’«infinito» nell’amore: il desiderio di amare e di essere amati non è mai totalmente esaurito; l’amore autentico ha un aspetto di mistero da rispettare.

E’ il mistero di due persone che si scelgono reciprocamente nella piena gratuità del dono di se stesse,
+ senza pretese di cambiare o di modellare l’altro/a secondo le proprie attese…
+ ma con l’impegno di riconoscersi l’un l’altro nella propria identità, con la propria storia e di aiutarsi a crescere insieme, ad esprimere il meglio delle rispettive potenzialità…

L’amore quindi è dono, ma è anche responsabilità: – responsabilità di renderlo sempre più autentico, per liberarlo dalla tentazione quotidiana dei nostri egoismi;
– responsabilità di costruirlo progressivamente, secondo il progetto che Dio ha posto nell’uomo e nella donna;
– responsabilità nel crescere insieme: pensando insieme, progettando insieme, decidendo insieme…;
– responsabilità di essere «segno» con il proprio amore dell’amore stesso di Dio…
E’ Dio stesso, infatti
– che ci ha donato gratuitamente la capacità di amare;
– che può rispondere al nostro bisogno di amore;
– che sostiene e fonda la nostra scelta di amare;
– che ci illumina sulle nostre responsabilità nell’amore.

Il ruolo di noi operatori di consultorio si inserisce in questo itinerario a vari livelli. L’analisi dei bisogni della coppia, l’accettazione delle differenze, i linguaggi e la comunicazione, la gestione delle emozioni.
Desideri, sentimenti, emozioni, quello che i classici chiamavano “passioni”, occupano un posto importante nel matrimonio. Si generano quando un “altro” si fa presente e si manifesta nella propria vita. È proprio di ogni essere vivente tendere verso un’altra realtà, e questa tendenza presenta sempre segni affettivi basilari: il piacere o il dolore, la gioia o la pena, la tenerezza o il timore. Sono il presupposto dell’attività psicologica più elementare. L’essere umano è un vivente di questa terra e tutto quello che fa e cerca è carico di passioni. (AL143)
E’ un passaggio fondamentale nella metodologia consulenziale e nella prassi comune. La vita di coppia è un groviglio di emozioni la cui gestione può causare tante ferite e segnare solchi indelebili.
La relazione consulenziale può aiutare a: Riconoscere – Verbalizzare – Accogliere l’altro – Assumersi le proprie responsabilità
Un cammino di coscientizzazione che aiuta la persona non solo ad accettare le ferite e affrontare i conflitti ma anche a viverli come un dono e un’occasione di crescita.
Imparando ad attivare un continuo processo di consapevolezza delle mie e delle altrui emozioni sarà possibile evitare la confluenza (assenza di confini) con chi mi sta di fronte, l’introiezione inconsapevole delle sue emozioni o la proiezione, anch’essa inconsapevole dei miei sentimenti su di lui. (Cavaleri).

A condizione che l’espressione delle nostre emozioni sia sempre sostenuto dal rispetto reciproco: Nella vita di coppia si può — paradossalmente—fare a meno dell’amore ma non si può fare a meno del rispetto. Senza l’amore la vita di coppia è piatta, ma senza rispetto è sanguinante; senza l’amore la vita di relazione non cresce, ma senza il rispetto comincia a franare fino ad arrivare al crollo. L’amore vero, a ben vedere, è anche rispetto vero. Per sua natura l’amore ha una forte componente emozionale: per questo subisce oscillazioni e non sempre è governabile con la ragione e con la volontà. Il rispetto, invece, si concretizza in un insieme di comportamenti che sono sotto il controllo della decisione della persona.
Il rispetto va comunque chiarito nel suo significato per evitare che venga sottovalutato o impoverito. Il rispetto non può infatti essere ridotto ad un formalismo, a superficiali “buone maniere”, o ad un semplice tratto tempera-mentale. Non è nemmeno un gesto unilaterale che consente all’altra persona di sentirsi rispettata o non rispettata. Il rispetto è qualcosa di più e di più profondo: ha una doppia valenza ed è una costruzione “a due”. (Montuschi).
In un percorso di consulenza familiare si può imparare il vero rispetto di sé che si prolunga nel rispetto verso l’altro. E’ un compito educativo a cui più volte richiama AL (148).

Prendersi cura dell’amore in una coppia è valorizzare ed equilibrare le componenti dell’amore stesso:
La passione che ha radice nel senso di appartenenza e di “dipendenza” e che si vive attraverso l’attrazione fisica, la simpatia, la reciprocità. E qui il discorso sulla dimensione erotica dell’amore si fa caldo, concreto, alto in AL sulla scia dell’insegnamento di Giovanni Paolo II:
A coloro che temono che con l’educazione delle passioni e della sessualità si pregiudichi la spontaneità dell’amore sessuato, san Giovanni Paolo II rispondeva che l’essere umano è «chiamato alla piena e matura spontaneità dei rapporti», che «è il graduale frutto del discernimento degli impulsi del proprio cuore». È qualcosa che si conquista, dal momento che ogni essere umano «deve con perseveranza e coerenza imparare che cosa è il significato del corpo». La sessualità non è una risorsa per gratificare o intrattenere, dal momento che è un linguaggio interpersonale dove l’altro è preso sul serio, con il suo sacro e inviolabile valore. In tal modo «il cuore umano diviene partecipe, per così dire, di un’altra spontaneità». In questo contesto, l’erotismo appare come manifestazione specificamente umana della sessualità. In esso si può ritrovare «il significato sponsale del corpo e l’autentica dignità del dono». Nelle sue catechesi sulla teologia del corpo umano, san Giovanni Paolo II ha insegnato che la corporeità sessuata «è non soltanto sorgente di fecondità e di procreazione», ma possiede «la capacità di esprimere l’amore: quell’amore appunto nel quale l’uomo-persona diventa dono». L’erotismo più sano, sebbene sia unito a una ricerca di piacere, presuppone lo stupore, e perciò può umanizzare gli impulsi.
Pertanto, in nessun modo possiamo intendere la dimensione erotica dell’amore come un male permesso o come un peso da sopportare per il bene della famiglia, bensì come dono di Dio che abbellisce l’incontro tra gli sposi. Trattandosi di una passione sublimata dall’amore che ammira la dignità dell’altro, diventa una «piena e limpidissima affermazione d’amore» che ci mostra di quali meraviglie è capace il cuore umano, e così per un momento «si percepisce che l’esistenza umana è stata un successo». (AL151-152)
L’intimità che si fonda sulla fedeltà e che si nutre di confidenza, affinità, complementarietà, sostegno e reciprocità.
L’impegno legato alla responsabilità che domanda decisione, scelta, impegno, progettualità.
La comunicazione: Il dialogo è una modalità privilegiata e indispensabile per vivere, esprimere e maturare l’amore nella vita coniugale e familiare. Ma richiede un lungo e impegnativo tirocinio. Uomini e donne, adulti e giovani, hanno modi diversi di comunicare, usano linguaggi differenti, si muovono con altri codici. Il modo di fare domande, la modalità delle risposte, il tono utilizzato, il momento e molti altri fattori possono condizionare la comunicazione. Inoltre, è sempre necessario sviluppare alcuni atteggiamenti che sono espressione di amore e rendono possibile il dialogo autentico. (AL136)
AL indica molte risorse (223-230) a cui attingere per sostenere il cammino della famiglia e tra questi vengono nominati anche i centri di consulenza. Le stagioni che attraversa una famiglia e soprattutto le crisi da cui è solcata rivelano la sua drammatica bellezza (AL232). E ogni crisi implica un apprendistato che permette di incrementare l’intensità della vita condivisa, o almeno di trovare un nuovo senso all’esperienza matrimoniale. In nessun modo bisogna rassegnarsi a una curva discendente, a un deterioramento inevitabile, a una mediocrità da sopportare. Al contrario, quando il matrimonio si assume come un compito, che implica anche superare ostacoli, ogni crisi si percepisce come l’occasione per arrivare a bere insieme il vino migliore. È bene accompagnare i coniugi perché siano in grado di accettare le crisi che possono arrivare, raccogliere il guanto e assegnare ad esse un posto nella vita familiare. I coniugi esperti e formati devono essere disposti ad accompagnare altri in questa scoperta, in modo che le crisi non li spaventino né li portino a prendere decisioni affrettate. Ogni crisi nasconde una buona notizia che occorre saper ascoltare affinando l’udito del cuore.
I conflitti “luogo” di relazione
Abbiamo detto che è inevitabile che tra persone che convivono si sviluppino discussioni e diverbi in quanto ciascuno cerca il bene e talvolta lo fa a partire “solo” dalla propria prospettiva, che sembra essere la più adeguata. Il problema non è tanto il conflitto in sé, ma quanto questo possa diventare costruttivo! Sì, il termine costruttivo sembra essere in antitesi con la parola conflitto; eppure non ci sono conflitti dannosi di per sé, a meno che non nascano da intenzioni cattive del cuore dell’uomo. L’autenticità del conflitto dipende da come esso viene gestito, e dunque dal desiderio di cercare il “bene in sé” anziché il bene “per sé”, per i propri interessi, per le proprie idee, per la propria autostima. Perciò il conflitto può paradossalmente divenire il luogo dove le relazioni si purificano, anche attraverso la sofferenza e insieme il luogo dove l’amore diventa maestro e testimone.
Il conflitto abita là dove vivono e operano persone che condividono qualcosa di importante. Il vissero felici e contenti appartiene a quei miti a cui abbiamo fatto cenno e che ben presto svaniscono o che comunque devono essere sfatati. Il tema del conflitto non è far sì che non ce ne siano ma piuttosto di attrezzarsi a come affrontarli. E’ forse necessario domandarsi come entriamo nel conflitto, come ci stiamo dentro e come ne usciamo.
Il conflitto esplode spesso all’interno di una crisi più ampia. E noi sappiamo che la crisi è una situazione di passaggio, costitutiva di ogni situazione vivente. Ogni passaggio è scomodo, difficile e anche pericoloso. In cinese “crisi” si scrive con due caratteri: pericolo e opportunità. Il pericolo ci mette in guardia, e questo può farci tirare indietro, ma può anche disporci ad avanzare. Il rischio ci sollecita, ma il suo carattere minaccioso ci può paralizzare. Da qui la seconda parola, “opportunità”, la quale indica che tale situazione può essere un’occasione per fare un salto di qualità e di crescita.
Qui rimando ad altri studi la descrizione dei vari passaggi o regole. Ciò che a noi forse oggi interessa sono i passaggi da fare in consulenza familiare.
Ascoltare l’espressione delle emozioni senza reprimere i sentimenti, recuperandone il controllo e aiutando con la riformulazione a esprimere pensieri positivi possibili.
Con il metodo dell’intuizione evidenziare gli elementi importanti così da limitare l’oggetto del conflitto.
Aiutare la descrizione in prima persona evitando di supporre le motivazioni dell’altro/a. (questo potrebbe creare uno strappo più profondo che è la mancanza di fiducia).
Attingere sempre al qui ed ora per evitare di andare nella cantina della memoria avvelenata e tirar fuori eventi ammuffiti ma ancora presenti.
Offrire il “potere” di tagliare col passato (Vedi la scena di Mission e di colui che si porta dietro il fardello dei suoi errori) e la responsabilità personale nel conflitto.
Individuare i comportamenti che ciascuno deve migliorare per risolvere il conflitto.
Facilitare la comunicazione e i livelli di interazione (sensazioni, opinioni, sentimenti, intenzioni e azioni) e l’espressione totale dei bisogni.
Individuare un contratto personale e di coppia circa gli obiettivi e i cambiamenti possibili.
Verificare il raggiungimento degli obiettivi intermedi e accettare gli eventuali fallimenti.
Chiarire pretese, difese, e eliminare le offese.
Da un punto di vita pedagogico evidenziare i valori comuni e condivisi e lavorare sul senso.
Noi consulenti siamo chiamati, di fronte alla complessità delle vicende ad utilizzare la “grammatica della semplicità”, secondo una splendida espressione di papa Francesco in Brasile. E per noi la grammatica della semplicità non è una banalizzazione del nostro metodo ma una purificazione di esso da alcune sovrastrutture che, a volte, possiamo essere tentati di inserire.

Fino alla straordinaria esperienza del perdono, che fortunatamente ora è riscoperta come grande risorsa e confinabile solo in ambito religioso: La faticosa arte della riconciliazione, che necessita del sostegno della grazia, ha bisogno della generosa collaborazione di parenti ed amici, e talvolta anche di un aiuto esterno e professionale (AL236).
AL arriva ad auspicare ciò che stiamo tentando di fare da cinquant’anni (anche se ancora non troppo riconosciuto): In ogni caso, riconoscendo che la riconciliazione è possibile, oggi scopriamo che «un ministero dedicato a coloro la cui relazione matrimoniale si è infranta appare particolarmente urgente (AL 238).
Di qui la necessità di una pastorale della riconciliazione e della mediazione attraverso anche centri di ascolto specializzati da stabilire nelle diocesi (AL242).

CURA DELLA RELAZIONE DUCATIVA

Noi siamo il frutto delle relazioni che riusciamo a intessere, il frutto degli incontri che sono a loro volta sempre dei risvegli alla realtà. La famiglia è un bene relazionale. In questo snodo di relazioni, occorre prendersi cura di ciò che è più delicato, la relazione genitori figli. Lì si manifestano spesso le fragilità, le vulnerabilità, e si concentrano le ansie, le preoccupazioni, i fallimenti e le conquiste.
E’ in quest’ambito, in modo speciale, che si capisce l’espressione: E’ un compito “artigianale”, da persona a persona: «Quando tuo figlio un domani ti chiederà […] tu gli risponderai… (16).
Papa Francesco dedica all’educazione dei figli tutto il capitolo settimo.
Nel contesto della cura vorrei semplicemente evidenziare alcuni elementi in positivo e in negativo:
1) non indottrinamento ma ascolto autentico e crescita reciproca, perché mentre i figli crescono anche noi maturiamo (o almeno dovremmo) come genitori. Educazione sempre nella reciprocità: saper comunicare (pensieri ma soprattutto emozioni) e ascoltare (binomio continuo tra donarsi- accogliere).
2) L’essere umano è un essere imitativo: nei rapporti familiari impariamo la grammatica delle relazioni con le persone. Ecco perché le deformazioni che sono a carico della vita comune delle famiglie sono importanti: esse rischiano di precludere tutta la nostra esistenza con gli altri.
Alcune deformazioni, forse le più frequenti:
a) “Mio figlio”. Occorre riconoscere che nessuno è proprietà di un altro, ma che in primis i “nostri figli” nascono nella e alla libertà. Passaggio ben compreso razionalmente ma difficilissimo da realizzare e vivere con il cuore. Conseguente…
b) Angoscia che nega o limita la libertà dei figli (giusto equilibrio che permette all’altro di sbagliare, proprio in virtù della libertà che gli si riconosce).
c) Amore sfiduciato: giudica i figli come incapaci (con profondità differenti è sperimentabile in ogni età) e conseguentemente comporta la chiusura da parte dei figli.
d) Amore che non tollera i conflitti e non riparte dalla gestione del conflitto, attraversato e superato col dialogo. Affinché un conflitto venga superato è necessario tutto l’impegno che si usa nelle traduzioni tra lingue diverse!
Educare ad esprimere i propri sentimenti ed emozioni, senza paura del giudizio o delle conseguenze, fondamentale per maturare come coppia, come famiglia e come ponte verso la società. Rispetto a tutto questo l’esperienza del cristianesimo ci dà una fonte essenziale di comprensione e di riconoscimento dell’umano. Nei Vangeli c’è la storia di un padre e una madre. Non parlo qui di Giuseppe e Maria, ma di Dio stesso. Dio è padre e madre, non sta dall’alto della sua potenza a giudicare i figli o a disprezzarli, ma si fa figlio e fratello. Per cui Dio, in primis, ci insegna come l’essere padre e madre, l’essere adulto e maturo, non è una forza contro chi è piccolo, ma è piuttosto un movimento di approssimazione amorevole nei confronti di chi è piccolo. Qui al giudizio viene sostituita la prossimità: sto al tuo fianco, sto con te comunque, nel rispetto della tua libertà, e se vuoi posso aiutarti a nascere, perché tu sia pienamente te stesso.

La famiglia è luogo naturale di crescita umana, ma è luogo ideale se in essa si trovano tutte quelle condizioni capaci di sviluppare le potenzialità dell’individuo. Queste condizioni non vanno create artificialmente, ma devono costituire quasi naturalmente il clima adatto. Non si tratta insomma di recitare la parte dell’educatore, ma di essere educatori.

Gli elementi del clima educativo
Gli elementi che creano clima educativo sono: l’intelligenza, l’accettazione reciproca, la libertà, l’amore.
L’intelligenza educativa non ha niente a che fare con titoli di studio (anche se questi possono aiutare). Essa è la disponibilità profonda a capire le caratteristiche personali dei figli, ad assecondarle, ad orientarle. L’intelligenza educativa esige da parte dei genitori una particolare attitudine al dialogo con i figli, un mettersi continuamente al loro piano, un’attenzione alle loro tappe di crescita, uno spirito di adattamento alle situazioni che mutano. E’ un lavoro di costante conversione alle esigenze dei figli.
Un’atmosfera educativa inquinata da grettezze, da vista corta, da piccineria rappresenta un ostacolo per la crescita della persona.
Ciò accade ad esempio quando i genitori usano i figli per proiettare in essi le loro aspirazioni deluse o non realizzate. Ci sono tanti figli che rivelano nel loro modo di essere l’impronta dei genitori, i quali hanno quasi creato un doppione di se stessi.
L’accettazione reciproca: per i genitori è prima di tutto accettazione fra loro. La grandezza, come dicono i saggi, non consiste nell’essere questo o quello, ma nell’essere se stessi, accettandosi per ciò che si è puntato tutto su ciò che si può diventare. I figli, fin da piccoli, avvertono attraverso emozioni e sensazioni se i loro genitori stanno bene insieme, se si apprezzano, se si stimano, se funzionano, pur con tutti i loro difetti. E questo dà loro una sensazione di sicurezza. Di qui a sentirsi essi stessi accettati, il passo è breve; e così i figli cominciano a gustare di esistere, di esistere per qualcuno, di contare qualcosa, di contare perché voluti. In tal modo, dalla semplice sensazione di essere accettati per quello che sono, belli o meno, maschi o femmine, sani o meno, comincia a germogliare in loro quel meraviglioso sentimento di fiducia nella vita su cui dovranno costruire pian piano la loro personale avventura… In caso contrario cominceranno ad impaurirsi, a temere d’essere di peso, a sentirsi estranei. Oggi si parla tanto di emarginazione; questa è proprio la parola giusta. Quando non si accetta pienamente un figlio, lo si emargina. Una famiglia in cui manca l’accettazione, è una famiglia nella quale ci si sente insicuri, in cui si diventa aggressivi (si vuole cioè imporre l’attenzione verso di sé), in cui si sta a fatica e in cui si cresce male. E come parlare poi ai figli del progetto di Dio che li ha voluti, che ha assegnato loro un compito nella vita, se nella famiglia questo posto non l’hanno?
La libertà: è saper fare con fantasia ciò che ci compete, è sapersi muovere con intelligenza nell’ambito dei valori. La libertà, come si dice spesso non è poter fare ciò che si vuole, non è un meccanismo istintivo. E’ razionalità di una scelta. La vera libertà è libertà dal male, non quella di fare il male. Nella gara per diventare uomini si vince solo se si punta al traguardo del bene, con fantasia. Quali sono le conseguenze sul piano educativo?
Educare nella libertà significa educare al senso dei valori, al rispetto dei valori; significa aiutare il figlio a muoversi nella direzione di essi. Significa aiutare i figli a scoprirli da soli, anziché fornirglieli già pronti. Creare un clima di libertà può significare, specie oggi, allenare al coraggio di essere originali in un mondo di uomini sempre più standardizzati, significa abitare i figli a vincere la pigrizia mentale per domandarsi continuamente il perché delle proprie scelte. Dire: “Fai quello che ti pare”, per scaricare la propria responsabilità, non è atteggiamento educativo. Il Vangelo ci dice: “La verità vi farà liberi”, frase che tradotta pedagogicamente può significare di presentare ai figli dei modelli veritieri e reali di comportamento. Una famiglia malata di sotterfugi, di intrallazzi, di ambiguità, di falsità, di incoerenza è una famiglia in cui lo spirito di libertà non c’é e nella quale quindi si stenta a crescere.
L’amore: in campo educativo è una riscoperta. Studiosi sempre in maggior numero indicano l’amore come l’atteggiamento educativo principale. Chi di noi non ha sentito parlare di carenze affettive come cause di crescite fallimentari o quasi? Tutti conosciamo l’importanza dell’affetto dei genitori nei primi tempi della vita, quando cioè ancora non si possono are messaggi educativi parlati, ma tutto avviene a livello preverbale; ebbene, gli studiosi dicono che sono determinanti questi momenti iniziali per la strutturazione della personalità futura del figlio. L’educazione non è un fatto di parole o di tecnica, ma un fatto di amore. L’uomo riuscito è quello che sa amare, quello che sa creare una comunicazione interpersonale autentica.
Creare in una famiglia un clima di amore significa adoperarsi a fare spazio all’altro, ai figli. L’amore non si dimostra con teorie, ma si contagia, si offre, si mostra. Esso è l’unica realtà che si trova donandola.
Una atmosfera familiare in cui si coltivano più o meno sfacciatamente l’intolleranza, il calcolo, l’egoismo, indubbiamente non favorisce la crescita umana.

AUTORITA’ COME CRESCITA
Nel testo di Papa Francesco appaiono parole che sembravano desuete: disciplina e sanzione!
La cosa fondamentale è che la disciplina non si tramuti in una mutilazione del desiderio, ma in uno stimolo per andare sempre oltre. Come integrare disciplina e dinamismo interiore? Come far sì che la disciplina sia un limite costruttivo del cammino che deve intraprendere un bambino e non un muro che lo annulli o una dimensione dell’educazione che lo inibisca? Bisogna saper trovare un equilibrio tra due estremi ugualmente nocivi: uno sarebbe pretendere di costruire un mondo a misura dei desideri del figlio, che cresce sentendosi soggetto di diritti ma non di responsabilità. L’altro estremo sarebbe portarlo a vivere senza consapevolezza della sua dignità, della sua identità singolare e dei suoi diritti, torturato dai doveri e sottomesso a realizzare i desideri altrui. (AL 270).

E’ il tema dell’autorità come luogo educativo.
Da una parte si considera l’autorità come uno strumento necessario per orientare alla libertà e condurre l’altro verso un cammino di libertà. Dall’altra si constata che gli adulti (che siano genitori, educatori o altro) hanno rinunciato alla responsabilità di educare preferendo il ruolo di amici (dei figli o degli studenti) consegnandoli allo smarrimento per l’assenza di punti di riferimento di modelli da imitare o padri da seguire.
Molti sono concordi nel ritenere che l’assenza di proposte da parte degli educatori abbiano provocato un disorientamento valoriale/ comportamentale e una gestione della libertà che appare senza nomìa (senza leggi o etica).
La nostra esperienza di consulenti familiari fa un po’ di fatica a leggere un legame di causa –effetto tra queste due realtà. Tanto che ci sembra emerga dai colloqui consultoriali che il malessere giovanile sia molto legato al malessere degli adulti e che la de-responsabilizzazione sia prima di tutto della classe adulta. Non possiamo nemmeno accontentarci di invocare autorità o autorevolezza per trasformarci in buoni educatori. Si sente ripetere (spesso con tono saccente che maschera la paura del fallimento) che è necessario rimettere al giusto posto i ruoli annullando la pariteticità della relazione educativa a favore di un donatore e di un ricevente.
Quasi che l’educatore fosse il solo punto di riferimento verso cui muoversi, il modello da imitare. Se questa dimensione testimoniale è importante, come può essere arricchita, nutrita perché si trasformi in vera autorità, evitando sia l’appiattimento dei ruoli (siamo amici) sia la tentazione autoritaria (uno sopra e l’altro sotto)?
La relazione d’aiuto ci può illuminare su una possibile pista di risposta.

Nel dialogo consulenziale, a differenza di altri tipi di dialogo, si parte dal presupposto non tanto di una parità di ruoli (Helper e Helpee si differenziano certamente nei ruoli e non si confondono) quanto di un reciproco aiuto.
Noi siamo spesso abituati a collegare il concetto dell’aiutare con quello del dare. Colui che dà è la parte attiva della transazione, e chi riceve è passivo.
La consulenza è invece un luogo in cui tanto si dà e tanto si riceve.
In questo tipo di relazione d’aiuto, avviene sempre uno scambio fra Helper e Helpee anche se le posizioni sono differenti e la situazione non si presenta paritaria tra una persona che chiede aiuto e una persona che offre aiuto.
L’uno riceve sostegno, aiuto, comprensione, ascolto, accoglienza che l’altro offre. Ma non esiste una parte tutta attiva e una parte tutta passiva: come sempre la comunicazione è circolare e lo scambio, capace d’influire sull’altro, è reciproco.
Quello che appare chiaro è che il “focus” è la relazione.
Sono ormai tutti concordi, nel mondo della psicologia, nel ritenere che il vero punto di forza del lavoro terapeutico e consulenziale stia nella relazione che si instaura tra colui che offre e colui che chiede aiuto. La buona relazione permette al cliente di affidarsi, di portare in consulenza i propri disagi, raccontare gli errori, esprimere le miserie, verbalizzare le cose di cui più si vergogna.
Senza la costruzione di una relazione forte, in cui ci si sente protetti tutto questo sarebbe impossibile. Ma è necessario anche che i due poli della relazione si mettano ambedue nel processo di crescita cosicché la relazione di autorità si trasformi in una crescita comune, in una cum-crescita. Restano chiare le differenze ma non c’è solo la dinamica di travaso dall’uno all’altro, dal ricco (di conoscenza) al povero, dal dotto all’ignorante, dal possessore di risposte al questuante. E’ piuttosto un’offerta di aiuto per far crescere autonomia e responsabilità.
Questo permette un credito di apertura incondizionata verso il futuro, non solo consegna della tradizione, dei valori del passato ma conquista di una maggiore libertà. E, siccome la libertà non può mai essere imposta ma va faticosamente cercata, ci si espone continuamente all’errore.
E’ qui che nasce il brivido del dialogo educativo perché le lacrime di fatica e di fallimento nell’esercizio della propria autorità genitoriale o educativa in genere che raccogliamo sono infinite. Il senso di impotenza che ci attanaglia lo stomaco è legata al rischio di non vedere il benessere di chi amiamo e serviamo. Ma è pur vero che nella relazione nulla è dato per scontato. E’ la sfida di non essere perfetti e di riconoscere all’altro una dimensione che non ricalcherà mai semplicemente i nostri schemi ma resterà per sempre “altra”.

LA CURA DELLE SITUAZIONI COMPLESSE
Il capitolo ottavo è quello che più di altri ha attirato l’attenzione dei commentatori e li ha a volte divisi in fazioni contrapposte.
E’ certamente un testo che, pur conservando una continuità con la tradizione, apporta una grande novità di approccio alle situazioni di fragilità e in particolare alle situazioni di separazione, divorzio e nuova unione. AL rappresenta effettivamente un’evoluzione soprattutto nei temi di accompagnamento e integrazione delle situazioni che il testo stesso mette tra virgolette. Il termine “irregolare” è usato con una certa reticenza per salvaguardare il rispetto delle persone coinvolte.
Non entriamo nel dettaglio dell’itinerario proposto da AL ma sottolineiamo alcuni aspetti che toccano la nostra azione consulenziale.
Già il titolo del capitolo indica la strada: ACCOMPAGNARE, DISCERNERE E INTEGRARE LE FRAGILITA’.
Il capitolo si apre con l’invito a “prendersi cura” di coloro che sono più fragili e sono segnati dall’amore ferito e smarrito (AL 291) come in un ospedale da campo. E pur avendo chiaro davanti agli occhi la famiglia come Dio l’ha pensata, non possiamo chiudere gli occhi su coloro che non realizzano in pieno questo ideale o lo realizzano in modo parziale. Con loro è importante valorizzare gli elementi costruttivi della loro relazione, ed è ciò che facciamo nei nostri consultori quando si presentano da noi coppie che hanno caratteristiche diverse (matrimonio, convivenza, unione di fatto…). Accompagnarle con pazienza e delicatezza (AL294) per scoprire le risorse che portano in loro stesse e che sostengono la loro relazione.
Non è mai permesso nel nostro servizio emarginare o condannare qualcuno mettendolo sotto i riflettori della nostra impostazione interiore.
Non possiamo nemmeno pensare che insistendo solo sulla dottrina, sui principi (es, l’indissolubilità) possiamo preservare la famiglia da fratture. L’infrangibilità non è garantita con la promessa.
Mi permetto di ricordare alcuni principi etici (o i relativi rischi) consultoriali che, in questo contesto si inseriscono coerentemente:
Identificare “problema e persona”, riducendo la persona alla dimensione unica del suo problema o separando il “problema” dalla persona nella sua globalità.
Giudicare o indottrinare, senza aiutare a crescere e a maturare scelte personali: ciò avviene imponendo quadri di riferimento, valori o pseudo valori della propria esperienza, che non necessariamente corrispondono al bene della persona.
Attaccamento rigido e formalista alla legge, senza capacità e volontà di inserirla nel vissuto della persona.

Preoccupazione ossessiva dei princìpi, più che della persona nella sua condizione concreta.
Atteggiamento di giudizio e di condanna, senza alcuna comprensione delle ragioni e dei ritmi della persona.
Pretesa che tutti si comportino come lui ritiene che sia giusto, costituendosi abusivamente “coscienza” di tutti gli altri.

Ogni consulente ha un proprio quadro di riferimento, criteri di valutazione, valori ai quali attribuisce maggiore o minore importanza.
E’ utile avere una conoscenza riflessa di quali sono le proprie scelte e i propri orientamenti etici, per esserne consapevoli, in modo da rispettare veramente la coscienza del cliente, rispettando nello stesso tempo la propria coscienza.

AL chiede ancora che ogni situazione sia sottoposta a discernimento.
Non si può avere la pretesa di “avere tutto sotto controllo”, di poter incasellare, giudicare in base alla norma usata come pietra (AL 305) o come muro oltre il quale non si può andare. I divorziati che vivono una nuova unione, per esempio, possono trovarsi in situazioni molto diverse, che non devono essere catalogate o rinchiuse in affermazioni troppo rigide senza lasciare spazio a un adeguato discernimento personale e pastorale (AL 298).
La parola discernimento occupa un posto determinante in AL tanto che è usata circa 50 volte. E la necessità del discernimento nasce dal rispetto profondo della coscienza di ciascuno, ultimo luogo dove nascono e maturano le scelte morali.
È meschino soffermarsi a considerare solo se l’agire di una persona risponda o meno a una legge o a una norma generale, perché questo non basta a discernere e ad assicurare una piena fedeltà a Dio nell’esistenza concreta di un essere umano. (AL 304)
Il discernimento non riguarda un problema da risolvere ma la vita di una persona in cammino, in divenire. Nessuna famiglia è una realtà perfetta e confezionata una volta per sempre, ma richiede un graduale sviluppo della propria capacità di amare (AL325): per questo necessita di accompagnamento e discernimento perché possa tendere e raggiungere il bene possibile nel qui ed ora.
Il discernimento è una realtà dinamica, aperta, teso ad una crescita verso un benessere maggiore, nella ricerca di nuove vie di risposta al Bene più grande. Ricordiamo che un piccolo passo, in mezzo a grandi limiti umani, può essere più gradito a Dio della vita esteriormente corretta di chi trascorre i suoi giorni senza fronteggiare importanti difficoltà (AL 305).
Il discernimento che ha la sua sede privilegiata il foro interno, cioè nel colloquio personale e riservato con il ministro della Chiesa, può avere due momenti principali: un colloquio sulla situazione concreta di vita e il racconto dello sviluppo della vita di coppia fino alla separazione, al divorzio e alla nuova unione e un colloquio che può essere sacramentale.
Nel primo colloquio (che qualcuno avvicina al pastoral counslling o al moral counseling) si chiede alla persona che entra in discernimento uno sguardo sincero, sereno, che può essere anche un “esame di coscienza” sulla propria vicenda.
Nel rispetto della necessaria distinzione tra la sfera di competenza del ministro e quella di un operatore di consultorio, credo possa essere di grande aiuto in quest’opera di accompagnamento e discernimento offrire la possibilità anche di un accompagnamento consulenziale che aiuti ud una eventuale rilettura di ciò che è avvenuto e a verificare eventuali strategia di miglioramento personale nella nuova relazione. Invito i fedeli che stanno vivendo situazioni complesse ad accostarsi con fiducia a un colloquio con i loro pastori o con laici che vivono dediti al Signore. Non sempre troveranno in essi una conferma delle proprie idee e dei propri desideri, ma sicuramente riceveranno una luce che permetterà loro di comprendere meglio quello che sta succedendo e potranno scoprire un cammino di maturazione personale (AL312).
Il discernimento è certamente un atto di fiducia, in se stessi, nell’altro e in Dio. Un cammino di fiducia che fa scoprire la reale responsabilità di ciascuno, a considerare le circostanze attenuanti rispetto ad eventuali colpe e soprattutto una fiducia nella misericordia.
Coscienti che siamo in cammino e le certezze assolute, finché siamo in cammino, non le avremo mai. Ma potremmo gustare una pace più profonda che, lontano da ogni compiacimento, ci mette continuamente in “domanda e in trasformazione”.
Gesù «aspetta che rinunciamo a cercare quei ripari personali o comunitari che ci permettono di mantenerci a distanza dal nodo del dramma umano, affinché accettiamo veramente di entrare in contatto con l’esistenza concreta degli altri e conosciamo la forza della tenerezza. Quando lo facciamo, la vita ci si complica sempre meravigliosamente (AL308).

CONCLUSIONE

Amoris Laetitia ha aperto un cammino che domanda molto studio, molta esperienza e soprattutto molta collaborazione. Nessuno ha il monopolio della verità perché questa risiede nell’amore. E credo che le sinergie tra i vari operatori potrebbero offrire alla famiglia, nella sua accezione plurale, quell’aiuto che necessita per essere ciò che è per suo statuto, un bene sociale, un valore che precede la società e va oltre la società e della quale non possiamo fare a meno.
Una strada da percorrere è quella di coltivare nella vita un’etica della cura, della fiducia. Una strada in salita che chiede di affrontare i démoni della paura, del controllo, dell’autonomia e della assoluta fiducia in se stessi credendo nella reciproca appartenenza o addirittura di una reciproca e sana dipendenza.
E’ certamente prima di tutto un lavoro su se stessi. Ci vuole molta umiltà e semplicità per toccare con delicatezza la vita delle famiglie e in particolare per toccare le ferite. Ma “Senza accettare le proprie fragilità è impossibile ammettere le imperfezioni degli altri, senza integrare le parti perturbanti di se stessi è impensabile creare interazioni autentiche con chi ci circonda”.
E accanto al lavoro personale (ed è l’altra faccia indispensabile) è necessaria una sinergia comunitaria.
Diffondere sempre la cultura della relazione, dell’incontro, a dispetto degli eventi drammatici che ci assalgono, è diventato un dovere pedagogico di cui noi operatori di consultorio vogliamo farci carico.

Vorrei terminare da dove ho cominciato.
Etica della cura come accoglienza della diversità.
Durante il giubileo della misericordia per le persone con disabilità, Papa Francesco rispondendo a braccio alla domanda di una ragazza, Lavinia, che ha parlato della paura della diversità, così ha risposto: «Tutti siamo diversi, non c’è uno che sia uguale all’altro e ci sono alcune diversità più grandi o più piccole, ma tutti siamo diversi. Perché abbiamo paura delle diversità? Perché andare all’incontro di una persona con una diversità grave è una sfida e ogni sfida ci dà paura, è più comodo non muoversi, ignorare le diversità, dire che tutti siamo uguali e se c’è qualcuno che non lo è lasciamolo da parte».  
«Le diversità – ha continuato il Papa – sono proprio la ricchezza perché io ho una cosa tu un’altra e con queste due facciamo una cosa più bella e più grande. Un mondo dove tutti siano uguali sarebbe noioso! È vero che ci sono diversità che sono dolorose, tutti sappiamo, che hanno radice in alcune malattie ma anche quelle ci aiutano, ci sfidano e ci arricchiscono. Mai aver paura delle diversità, è proprio la strada per migliorare e essere più belli e più ricchi». E come si fa? Bisogna «mettere in comune quello che abbiamo. C’è un gesto bellissimo che le persone fanno quasi incoscientemente, stringere la mano: quando io stringo la mano metto in comune quello che io ho con te, se è un stringere la mano sincero. Ti do il mio e tu dai il tuo e questo fa bene a tutti e mi fa crescere». 

Mentre Francesco parlava a braccio, una bambina down è salita accanto a lui. «Questa è coraggiosa, questa non ha paura, lei rischia, sa che le diversità sono una ricchezza! Lei mai sarà discriminata, si sa difendere da sola», ha detto il Papa facendola sedere ai suoi piedi.
Io ho un piccolo grande amico, il mio eroe. E’ diverso, nonostante i suoi 11 anni ancora non sa parlare. E’ difficile quando cerca il mio collo per un abbraccio e per dirmi nel modo più storpiato: Ti voglio bene. Non sa baciare come facciamo noi e non sa fare una carezza, ma si avvicina, ti stringe e appoggia la sua bocca sulla guancia. Ma da un po’ di tempo quando mi saluta, mi prende la mano e mi trascina verso chiunque mi è vicino e vuole che gli stringa la mano. E’ lui che avvicina e unisce, non permette l’estraneità.
E’ qui il segreto della cura: la grande dignità di ciascuno a cui posso e devo stringere la mano.
La famiglia, le famiglie nella loro diversità, nelle loro fatiche e incapacità, nelle loro imperfezioni possono offrirci quello che hanno. Ti do il mio e tu dai il tuo e questo fa bene a tutti e mi fa crescere. 

 

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