Una vita degna di essere vissuta. Il percorso umano e professionale di Marsha Linehan.

          Credo tutti gli psicoterapeuti conoscano più o meno profondamente quello che è considerato oggi un percorso raccomandato ed efficace per curare gravi disturbi di personalità borderline in particolare con la presenza di impulsi suicidari: la terapia dialettico comportamentale (denominata DBT ovvero Dialectical Behaviour Therapy), ideata dalla psicoterapeuta americana Marsha Linehan.

          Si tratta in estrema sintesi di un approccio multi-focalizzato di stampo cognitivo comportamentale basato su una terapia individuale ed un training di gruppo che hanno lo scopo di sviluppare nel soggetto abilità cruciali per la vita e il benessere psicologico quali: regolare le emozioni, resistere alle frustrazioni e sopportare la sofferenza, mantenere la calma, esprimere in modo assertivo la propria posizione, costruire relazioni positive, validare se stessi e gli altri.

        Questo modello di intervento si è sviluppato a partire dagli anni 90 ed ora è seguito in moltissimi centri di igiene mentale sia in Italia che all’estero. La psichiatra Marsha Linehan che lo ha sviluppato testandone la validità con molte ricerche, nel 2011 ha riconosciuto pubblicamente di aver sofferto durante la giovinezza di gravi problemi emotivi, di essere stata ricoverata per diversi e lunghi periodi in cliniche psichiatriche e di aver tentato più volte il suicidio.

         Ella ha poi raccontato nel dettaglio il suo percorso umano e professionale nel 2020 in un libro straordinario, “Building a life worth living”, tradotto ed edito da Raffaello Cortina nel 2021 col titolo “Una vita degna di essere vissuta”.

       In questo mio contributo, vorrei fare alcune considerazioni proprio su quanto traspare in questo racconto e su come, al di là delle intuizioni tecniche che hanno supportato il lavoro clinico dell’autrice, sia stata la sua terribile e dolorosa esperienza personale a darle quella risorsa emotiva ed umana che le ha permesso di divenire un punto di riferimento per molte persone con questo tipo di difficoltà. Credo si possa dire che in questa terapeuta e nel suo percorso trovi conferma una celebre frase di Jung: “Solo il guaritore ferito può guarire”.

Analizzerò il percorso dell’autrice per punti sintetici riportando anche diversi stralci dal testo sperando di invogliare a leggere questo libro integralmente.

La discesa all’inferno

          Con questo termine Marsha definisce il suo rapido entrare in uno stato di malessere psicologico all’età di diciannove anni caratterizzato da un senso di disperazione, di vuoto, di rabbia che non trovava motivi apparenti nella sua realtà esterna. Marsha era infatti una ragazza attraente, molto popolare appartenente ad una famiglia borghese, con un ottimo rendimento scolastico, molti interessi e considerata socievole e solare da tutti.

          L’autrice non riesce a darsi una spiegazione convincente di come questo sia stato possibile, tuttavia ben presto Marsha ha iniziato ad avere atti di autolesionismo che la portarono ad essere ricoverata in una clinica e messa in uno stato di isolamento.

         Riflettendo su questa drammatica involuzione in cui la disperazione l’ha portata a tentare per più volte il suicidio, Marsha ha ipotizzato che da un lato in lei ci fosse una qualche predisposizione biologica che la rendeva molto sensibile e dall’altro apparteneva ad una famiglia in cui era presente una forte componente di “invalidazione”.

         Con questo termine Marsha intende la presenza di una costante disapprovazione o la minaccia della stessa se non si è conformi alle aspettative dell’altro. Un clima in fondo dove una persona non è accettata per quello che è ma spinta ad essere conforme agli altri.

          “Era come se mia madre mi vedesse come un tulipano e volesse disperatamente trasformarmi in una rosa, convinta che come tale sarei stata più felice. Naturalmente questo mi ha fatto pensare: “in me dev’esserci qualcosa che non va” (p.78).

Stando al resoconto che Marsha fa dei suoi sintomi, sembra improbabile che soffrisse di un disturbo borderline, più plausibile invece che avesse una grave depressione per molto tempo mascherata con un falso adattamento sociale. Quello che tuttavia può aver accelerato il suo quadro psicopatologico sono stati proprio quei ricoveri lunghi e forzati che l’hanno isolata dal suo contesto sociale per più di due anni.

“L’ospedalizzazione e l’eccesso di farmaci ebbero probabilmente un ruolo importante nella mia discesa all’inferno”, per citare le parole di Marsha.

La risalita

         La parte più interessante del racconto di Marsha è a mio modo di vedere quella in cui ella cerca di individuare quei fattori che le hanno permesso di uscire dal suo inferno e divenire poi la persona che tutti hanno avuto modo di conoscere ed apprezzare: una psichiatra e psicoterapeuta innovativa e fortemente empatica e capace con i pazienti oltre che una ricercatrice a livello internazionale.

Questa sorta di rinascita lenta e piena di ricadute è stata favorita da alcuni elementi che ho cercato di individuare estrapolandoli dal flusso della narrazione fatto dall’autrice.

Un giuramento fatto a Dio

         Riporto questo stralcio dal libro: “Durante il mio soggiorno di oltre due anni all’istituto sono stata sorvegliata a vista. Un giorno ero tornata a sedermi al pianoforte e come spesso accadeva, parlavo a Dio rivolgendogli per lo più un disperato appello: “Dio dove sei?”. ….  Per la maggior parte della mia vita ho avuto un viscerale desiderio sia di stare con Dio sia di compiacerlo facendo la sua volontà. …. Il giorno in cui mi trovavo seduta nella sala del pianoforte da sola, un’anima solitaria in mezzo alle altre anime solitarie del reparto, non so esattamente cosa mi spinse a fare quello che feci. Qualunque fosse il motivo, lì per lì giurai a Dio che mi sarei tirata fuori dall’inferno e che una volta fatto questo, sarei tornata all’inferno e ne avrei tirato fuori le altre persone. Da allora, quel giuramento ha guidato e controllato pressoché tutta la mia vita” (pag.49).

         Marsha è sempre stata una persona molto credente, la fede in Dio è stata per lei un pilastro della sua visione del mondo e della sua percezione di sé. Quello che colpisce in questo brano del suo racconto è la determinazione che sostiene la sua promessa, il suo giuramento. Questo senso di volere con tutte le forze una cosa e di voler lottare per raggiungerla credo sia un fattore decisivo in ogni processo terapeutico. Nasce dalla convinzione che le cose dipendono da uno sforzo, che possono costare sacrificio ma anche che sono possibili.

         Nella determinazione a guarire c’è anche una visione più alta del proprio ruolo nel mondo: Marsha non solo vuole guarire per se stessa ma anche per essere d’aiuto agli altri. Posso immaginare che queste parole in bocca ad una paziente ricoverata avrebbero potuto essere lette come una sorta di delirio megalomanico. In realtà sono diventate un obbiettivo conseguito con successo, passando per lo studio e il duro lavoro.

Alcune relazioni autentiche di supporto incondizionato e costante

          Nel suo percorso terapeutico Marsha non cita delle vere e proprie psicoterapie strutturate ed efficaci, piuttosto individua tre figure che hanno esercitato un affiancamento umano e spirituale nella fase della sua “risalita”: il primo è stato uno psichiatra molto giovane, inesperto  ma estremamente coinvolto con cui Marsha resterà in contatto anche dopo il ricovero, il dottor O’Brein e gli altri due sono stati due sacerdoti: Anselm Romb un sacerdote francescano che insegnò a Marsha a pregare senza parole e Ted Vierra un altro prete fondamentale come risulta dalle stesse parole dell’autrice: “Fu un incontro provvidenziale perché Ted in alcuni momenti mi tenne letteralmente in vita”(pag.123).

          Che cosa avevano in comune queste tre figure? Direi che tutte erano molto coinvolte affettivamente, erano sempre disponibili a rispondere e comprendevano gli stati di disperazione di Marsha infondendo speranza.

Cito dal testo: “L’ultima lezione che ho appreso sia da Ted sia da Anselm riguarda l’amore. Se state con qualcuno che si trova all’inferno, continuate ad amarlo, perché questo alla fine sarà trasformativo” (pag. 124).

          Il concetto di amore sembra diventato un tabù nelle relazioni terapeutiche e colpisce come Marsha lo utilizzi con tanta disinvoltura e pertinenza: credo che questo derivi da una visione pienamente concreta e per nulla romantica o sentimentale del termine “amore”.

          In questo contesto per amore si intende una presenza costante, un pensiero di fiducia e di valorizzazione verso l’altro, un essere al fianco per lottare con lui, un accettare cadute e difficoltà senza recedere, un validare e comprendere il vissuto dell’altro senza mai giudicarlo.

          Un altro aspetto di questo “amore” consiste nel rispetto ultimo della volontà dell’altro; Marsha racconta un episodio per lei molto importante che diverrà anche un caposaldo del suo sistema terapeutico. Un giorno il dott. O’Brein le disse che aveva accettato che lei avrebbe potuto decidere di ammazzarsi e che non poteva in alcun modo impedirglielo ma che sperava fermamente di ritrovarla ancora in vita al suo rientro. Questa comunicazione così dura e spiazzante ha avuto l’effetto di mettere Marsha di fronte alla responsabilità dei suoi comportamenti e di bloccare un atteggiamento di delega in cui le proprie azioni vengono dirette da ciò che dovrebbe fare l’altro, una sorta di ricatto psicologico in cui sono intrappolate molte persone che hanno pensieri suicidari.

          Cito dal testo: “sospetto che il mio comportamento suicidario sia stato probabilmente rinforzato dai maggiori sforzi fatti per aiutarmi” (pag. 66).

L’impegno nel volontariato

          Durante gli anni universitari, quando ancora Marsha era colpita da ricadute depressive e da comportamenti autolesivi, era inserita in un’organizzazione che svolgeva assistenza verso i bisognosi. Questo tipo di servizio è stato un altro “tassello” importante nel contrastare il senso di vuoto e di disperazione che talvolta l’attanagliava: “Un modo per alleviare la depressione che ho continuato a sperimentare per molti anni, fu impegnarmi nel volontariato” (pag. 125).

La scoperta del pensiero circolare

         Frequentando le lezioni di psicologia, la giovane Marsha fu colpita da questo concetto che ebbe per lei un peso determinante sia nel suo metodo terapeutico, sia nel suo approccio come psichiatra ricercatrice: talvolta le nostre convinzioni su noi stessi o sul mondo sono frutto di una sorta di tautologia, in cui il pensiero trova in se stesso delle presunte prove di validità, producendo delle convinzioni spesso ingannevoli e indiscutibili.

Questo processo indicato come “pensiero circolare”, diviene poi una sorta di trappola mentale in cui i pazienti che soffrono di depressione o di scarsa autostima si rinchiudono. Per rompere questo meccanismo psicologico è importante, come Marsha suggerirà nel suo metodo, cercare sempre le prove dei nostri giudizi e delle nostre impressioni. Mettere in discussione i giudizi che diamo su noi stessi e sulla realtà basandoci su dati oggettivi raccolti in modo ampio e rappresentativo, è un modo molto importante per adattarsi alla realtà sfuggendo alle cosiddette “profezie che si auto avverano”.

Preghiera ed esperienze mistiche

          Marsha ha trovato nella preghiera un luogo sicuro, di validazione di se stessa e di armonia, che la sottraeva al senso di desolazione di cui molto spesso soffriva. Fu padre Anselm a insegnare a Marsha a pregare senza dire nulla. Questo perché “se parli quando preghi, è un dialogo con qualcuno separato da te. Ma se taci non c’è niente di separato da te. Sei un tutt’uno con Dio” (pag. 121).

Riporto questo stralcio in cui Marsha descrive il suo modo di pregare:

          “Per pregare mi sdraiavo sul pavimento del mio appartamento col le braccia lungo il corpo e il palmo delle mani rivolto verso l’alto, dicendo all’inizio, “Sia fatta la Tua volontà” e poi provando solo una silenziosa accettazione”.

Questa dimensione spirituale ha toccato in alcuni momenti delle vere esperienze mistiche su cui Marsha ha molto riflettuto.

         “E subito con gioia seppi con assoluta certezza che Dio mi amava. Che non ero sola. Che Dio era dentro di me. Io ero in Dio” (pag. 132).

         Queste esperienze hanno poi confermato in Marsha la scelta di dedicare la sua vita alle persone che vengono spinte al suicidio e ha cercato di incoraggiare anche i propri clienti ad aprirsi a questo tipo di ricerca spirituale considerata da lei come trasformativa.

         Questo sfondo spirituale non è stato esplicitamente introdotto nella DBT perché Marsha era molto preoccupata che il metodo clinico fosse frainteso e confuso con una qualche tipo di pratica spirituale. Tuttavia credo che alcuni nuclei di questa prospettiva aperta a vedere il singolo individuo inserito in una realtà più ampia e profonda si possano ritrovare nella filosofia complessiva che ispira il suo metodo.

Tracce del percorso personale nel metodo clinica di terapia ideato dalla Marsha Linehan

   Senza entrare nella descrizione dettagliata della terapia Dialettico Comportamentale, vorrei per concludere individuare alcune corrispondenze tra i nuclei qualitativi della DBT e l’esperienza personale di Marsha.

Queste corrispondenze le riconosco in quattro dimensioni fondamentali proprie di questo metodo:

impegno, accettazione, missione personale e speranza, che provo brevemente a tratteggiare.

          Impegno: il metodo si basa su un training che si sviluppa attorno allo sforzo di apprendere specifiche abilità. Per iniziare questo trattamento quindi occorre pattuire un contratto di impegno. Il messaggio che ne deriva per il paziente è chiaro: ogni problema può essere affrontato e migliorato con un lavoro costante e paziente. Non ci sono né soluzioni rapide ne fatalistiche diagnosi irreversibili. Tutto il percorso di “risalita” di Marsha è stato centrato su questo presupposto di lavoro per conseguire degli obiettivi personali.

         Accettazione: uno dei pilastri della DBT è la pratica della mindfulness, una tecnica di meditazione che ha lo scopo di sviluppare un atteggiamento non giudicante e di accettazione verso il proprio sé e verso la realtà esterna; è indubbio che questo atteggiamento ha qualcosa di affine con una postura di preghiera molto simile a quando Marsha, coricata sul pavimento pregava dicendo “Dio sia fatta la tua volontà”.

Missione personale: l’obiettivo della guarigione dai disturbi di personalità non è solo quello di trovare un equilibrio e liberarsi dalle angosce, non è soltanto risolvere problemi individuali.

           Il benessere personale nasce da un benessere sociale e dall’occupare un posto nel mondo avendo un significato per gli altri e per la propria comunità. La missione che Marsha si è data è un esempio di come per guarire, così come per lottare bisogna avere uno scopo.

           Speranza: la DBT insegna abilità di vita che sono valide per tutti e che tutti dovrebbero possedere. Il suo metodo pur essendo clinico e non trascurando anche la farmacoterapia è fortemente orientato in senso umanistico e pedagogico. Ha in sé un principio di responsabilizzazione del paziente rispetto al quale sempre un miglioramento è possibile e, anche se non si parla di guarigione, sempre si delinea un percorso in cui arrivare, per usare le parole del titolo del libro che ho voluto presentarvi, ad una vita degna di essere vissuta.

Concludo questo mio contributo con un’ultima citazione in cui Marsha Linehan ci parla della ricerca della “mente saggia”:

“Sono arrivata al concetto di mente saggia partendo da due diverse prospettive. La prima era che volevo che i miei clienti capissero che sono molto di più dei disturbi che manifestano.

La seconda prospettiva che mi ha guidato è stata l’esame dei comportamenti dei miei clienti. “Qual è l’opposto funzionale di questi comportamenti?” mi sono chiesta. L’opposto della disfunzionalità, ho deciso, è la saggezza. L’idea di entrare nello stato di mente saggia coincide col riconoscere e penetrare nelle nostre connessioni con l’intero universo” (pag. 340).

Breviglieri Paolo

Psicologo psicoterapeuta

Milvia Spinetta Psicologa Psicoterapeuta - "Se sei un tulipano, non cercare di  essere una rosa. Vai a cercare un giardino coltivato a tulipani." Marsha  Linehan Sto leggendo il romanzo autobiografico della psicoterapeuta
Elegante giovane donna che medita, pratica la respirazione yoga

Gli incontri di bioetica a Barbassolo.

Condividi, se ti va!