Un Dio che si affida agli uomini nel Primo Testamento

Un Dio che si affida agli uomini

nel Primo Testamento

Autore: Don Egidio Fagliani

In un suo breve ma profondo saggio, abbastanza noto al pubblico italiano, Martin

Buber sostiene che ciò che Dio concede alla sua creazione consiste nel “volersi lasciar conquistare dall’uomo consegnandosi a lui”, e a tale proposito precisa: “Dio vuole entrare nel mondo che è suo, ma vuole farlo attraverso l’uomo”, e questo viene da lui definito come “l’opportunità sovrumana del genere umano!”. Se, da una parte, tutto ciò sembra andare a favore dell’umanità considerata capace di “prendere in consegna” Dio, dall’altra c’è da chiedersi: un Dio che decide di mettersi nelle mani degli uomini, non rischia di diventare un Dio fragile, incapace di esercitare la sua cosiddetta onnipotenza?

Anche il testo biblico testimonia un orientamento in questa direzione, che appare molto chiaro nella chiamata di Abramo, al quale YHWH (il tetragramma sacro del Nome divino, che non si vocalizza per rispettarne la trascendenza) affida la sua benedizione all’umanità: “sii tu benedizione, benedirò coloro che benedicono te, e colui che sarà spregevole con te maledirò, e si benediranno in te tutte le famiglie della terra” (Gen 12, 2-3). E’ un Dio che vuole entrare nella storia, che vuole camminare con

l’umanità, ma fino a che punto risponde alle attese del pensiero umano che lo vorrebbe forte e invincibile?

Siamo quindi molto lontani dal Dio dei filosofi, dai caratteri quasi inossidabili: perfetto, onnipotente, onnisciente e via di seguito… La rivelazione ci mostra invece un Dio debole, fragile, che si consegna agli uomini perché ha bisogno della loro solidarietà. E a tale proposito è la mistica ebraica a ricordarci che, ogni volta che qualcuno compie il bene, non solo migliora la storia, ma produce qualcosa di buono anche in Dio, che ritrova la sua unità venuta meno nel darsi per amore alle sue creature. Alla perfezione impassibile, al “motore immobile” aristotelico, si contrappone l’amore appassionato del Dio biblico che tuttavia mostra la sua fragilità.

Hans Jonas, nel suo famoso saggio Il concetto di Dio dopo Auschwitz, ritiene che nel suo affidarsi agli uomini Dio si è giocato la sua onnipotenza, mentre Elie Wiesel ritiene che dopo la Shoah e dopo molte altre catastrofi sia necessario credere sia in Dio sia negli uomini. In tale orizzonte si delinea, da una parte, uno spazio notevole per la libertà umana alla quale Dio si affida, rischiando di non poter intervenire nella storia quando il male sopraggiunge oscurandolo, e, dall’altra, un’immagine divina per certi aspetti debole e fragile, ma tuttavia capace di pathos nei confronti delle sue creature con lui coinvolte nel mistero della sofferenza e del male.

Di fronte a ogni evento negativo, così come di fronte a ogni catastrofe naturale, è inevitabile chiedersi allora sia dov’era Dio, sia dov’era l’uomo. In fondo rimane l’idea che questo mondo, anziché una “casa” per l’uomo, si stia rivelando uno spazio pericoloso. E dove sia Dio, talvolta è difficile immaginarlo. Ma nella logica dell’alleanza biblica, dove Dio e l’uomo sono partner, l’iniziativa umana può rivelarsi decisiva. Chi conosce la vera gioia è come un uomo il cui spirito, per nulla abbattuto dopo che la sua casa è stata incendiata, si è messo subito al lavoro per ricostruire una nuova dimora e il cui cuore gioisce a ogni pietra posata. Di fronte alla fragilità di Dio che non riesce a impedire il male, l’impegno dell’uomo che ricostruisce ciò che è stato distrutto mostra quanto il bene e la gioia possano derivare dal frutto delle proprie mani, al quale Dio ha affidato la creazione.

Dal punto di vista biblico la storia è una partita che si gioca in due, e la fragilità, sia sul versante divino sia su quello umano, diventa lo spazio nel quale “scommettere” per dare un nuovo impulso al corso della vita. Ciò che appare perdente può rivelarsi vincente, ciò che sembra irrecuperabile può essere riscoperto come nuova opportunità.

Chi, per ragioni diverse, si misura quotidianamente con la fragilità che viene dalla malattia, da un contesto difficile, da una situazione precaria, o comunque da un’esperienza perdente, può lasciarsi sopraffare dal cosiddetto “destino” oppure può riprendere in mano la propria vita e, seppur convivendo con il limite, riorientare le proprie scelte nella prospettiva di un sano compromesso fra ciò che si desidera e ciò che è possibile. E’ a questa umanità che Dio si affida, ed è questa umanità che non si scoraggia di fronte a un Dio debole, ma che sperimenta come egli possa essere vicino sia nella gioia, sia nella sofferenza; come ci si possa rivolgere a lui denunciando

ingiustizie e contraddizioni, non perché vengano necessariamente risolte, ma perché ciò che fa soffrire l’uomo è innanzitutto un’offesa per Dio.

E’ interessane al riguardo un processo a Dio celebrato durante la Shoah da famosi rabbini internati ad Auschwitz: dopo giorni di accurato esame di ogni accusa, Dio è stato dichiarato colpevole di ciò che stava accadendo al suo popolo, tuttavia, dopo la sentenza, si è ricominciato a pregare. Di fronte a un male estremo, di cui Dio è ritenuto responsabile, l’agire dell’uomo si trasforma in preghiera, come a dire: “Continuo a dialogare con te nonostante tu ti sia rivelato debole e il mio affidarmi a te è consapevole del limite, ma tu rimani comunque il mio Dio nonostante ti abbia dichiarato colpevole”. In altri termini: con Dio, contro Dio, ma non senza Dio.

Continua pertanto a sorprendere positivamente l’iniziativa umana là dove il male porta lacerazioni profonde, là dove la natura sembra accanirsi distruggendo e portando morte. Ci si accorge infatti che la debolezza sta nel rinunciare a reagire, nel lasciarsi sopraffare dagli eventi, mentre là dove si recupera la voglia di vivere, tutto riacquista forza. E tutto dipende dalla volontà umana, dalla capacità di rimettersi in gioco, guardando a ogni difficoltà come a una sfida, a un’opportunità per misurarsi con la propria capacità di superare ogni ostacolo mettendo in atto tutte le risorse possibili.

Ecco allora che la grandezza dell’uomo celebrata dal Salmo 8, che si coniuga con l’amore di Dio che si prende cura di lui, emerge nella prospettiva di un affidarsi reciproco a partire dalla decisione divina di dargli il “potere sulle opere delle sue mani” (Sal 8,7), che significa affidargli la creazione affidandosi a lui. E’ nell’ambito di tale rapporto che si manifesta una fragilità che apre a molte domande riguardo agli attributi divini, e che non rassicura dal punto di vista di una teodicea volta a contrapporre la perfezione divina all’imperfezione umana. Si tratta semmai di recuperare una visione biblica di Dio dove, rispetto a ciò che si può dire di lui, prevale invece ciò che egli fa per gli uomini: non tanto chi è Dio in sé ma ciò che è Dio in relazione alla sua creazione. E se nel suo affidarsi all’umanità si rivela fragile, Dio rimane comunque l’unico capace di trasformare una storia anonima in storia di salvezza.

Egidio Faglioni

Sacerdote

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