Caratteristiche della madre “cattiva”

Caratteristiche della madre “cattiva”

Così come i genitori danno dei giudizi sui figli figli, allo stesso modo possiamo immaginare che anche i figli possano, in cuor loro, dare dei giudizi sui genitori.

Per quanto riguarda le madri che non riescono a soddisfare sufficientemente i bisogni dei loro figli. Per un bambino piccolo una madre è “cattiva” quando:

  • Si assenta eccessivamente, senza tenere in giusta considerazione le ansie e le paure del figlio. Per quest’ultimo è nefasta ogni separazione dalla madre, (Osterrieth, 1965, p. 55)[1] in quanto la sua mancanza lo priva di fondamentali e stabili punti di riferimento. Sappiamo che queste ansie e paure spingono il piccolo ad una situazione di sofferenza e caos per cui, in tali situazioni, tendono a prevalere le emozioni negative. Per Bowlby (1982, p. 51)[2] quando la madre si allontana da lui per qualche tempo, il bambino percorre tre fasi. Nella prima fase (fase della protesta), che può durare molti giorni, il bambino protesta per l’assenza della madre chiedendo di lei, piangendo copiosamente ed andando in collera anche per futili motivi. Nella seconda fase (fase della disperazione) il bambino, poiché si accorge che le sue speranze di far tornare la madre non hanno esito positivo, si calma ma si strugge dal desiderio che essa torni. Spesso queste due fasi si alternano. Nella terza fase (fase del distacco), il bambino sembra essersi dimenticato della madre. Appare disinteressato quando si parla di lei e quando lei ricompare può dare segni di non riconoscerla. In ognuna di queste fasi il piccolo è facilmente soggetto ad eccessi d’ira e ad episodi di comportamento distruttivo, spesso di tipo violento (Bowlby 1982, p. 52).[3] Quando la madre ritorna a casa, per un po’ rimane insensibile e non manifesta alcuna esigenza. Quando crolla si manifestano i suoi sentimenti ambivalenti. Da una parte vi è un aggrapparsi alla madre: quando questa lo lascia anche se per poco tempo, manifesta angoscia e collera intense, dall’altra manifesta verso di lei notevole ira ed aggressività, come a punirla per il suo comportamento. Se però il distacco è stato eccessivo vi è il rischio che il bambino non si leghi più con la madre (Bowlby 1982, p. 52).[4] Se la cura del bambino è affidata ad una persona con caratteristiche nettamente materne, la scomparsa della madre non viene avvertita prima dei tre mesi, in quanto egli non è consapevole delle persone e degli oggetti come entità distinte da lui, successivamente, ma soprattutto dopo i sette mesi, egli ne soffre moltissimo. Verso i quattro anni, quando il bambino è in una fase egocentrica, può addirittura pensare che la madre sia scomparsa perché lui è stato cattivo (Wolff, 1970, p. 8), [5] o ha avuto in passato dei pensieri negativi nei suoi confronti.
  • Modifica frequentemente le sue normali abitudini, senza tener conto che i bambini, come tutti i piccoli degli animali, sono esseri abitudinari. Essi avvertono tranquillità e fiducia solo quando attorno a loro gli avvenimenti si svolgono sempre nel medesimo modo. I cambiamenti, specie se repentini e non adeguatamente preparati, li mettono in ansia e li caricano di paure che, agli occhi degli adulti, appaiono strane ed eccessive, mentre in realtà sono solo la logica conseguenza di comportamenti ed atteggiamenti non adeguati.
  • Compie frequentemente su di lui o fa compiere senza vera necessità dagli altri (medici, terapisti, infermieri, puericultrici ecc.), azioni sgradevoli o dolorose.
  • Vive il rapporto con il figlio con ansia e paura. Una madre ansiosa si allarma troppo spesso e inutilmente. Si allarma se qualche volta mangia poco, non mangia o mangia troppo. Si inquieta se all’ora consueta non fa, come dovrebbe, la sua brava cacchina o ne fa troppa. Ha paura che con il suo seno possa infettarlo e lava e striglia il capezzolo affinché sia perfettamente pulito e sterile, non tenendo conto del desiderio che ha il bambino di soddisfare la sua fame e la sua sete, ma anche di sentire il “sapore e l’odore vero” del corpo di lei. Si angoscia per i motivi più banali: a volte teme che il viso del figlio sia troppo rosso, altre volte che sia troppo pallido. Alcune volte ha paura nel vederlo “troppo sonnolento”, altre volte “troppo sveglio per essere “normale”. La mente inquieta di una madre ansiosa non riesce a distinguere correttamente il confine tra normalità e patologia, tra benessere e malattia, per cui coinvolge il bambino in visite, controlli, terapie e cure assolutamente inutili ma spesso controproducenti per il benessere psicologico suo e del neonato.
  • Avverte il figlio come un estraneo capriccioso e incontentabile, difficile da capire e soprattutto impossibile da soddisfare. ‹‹Cos’altro devo fare per lui: l’ho allattato, l’ho pulito, l’ho cambiato e continua a strillare come un ossesso. Gli do il mio seno e sputa il capezzolo. Gli do il latte e strilla mentre sembra affogarsi. Più lo cullo e più si agita inquieto. No, questo non è un bambino: è un diavolo scatenato››.
  • Al contrario di quanto abbiamo appena detto, può essere estremamente fredda e imperturbabile. Indifferente a tutto ciò che riguarda il figlio. Sorda ai suoi richiami, continua a leggere il libro che l’entusiasma; insiste a vedere nella tv il programma preferito; continua a chiacchierare con le amiche o con chiunque sia disposta ad ascoltarla. A questo tipo di madre importa poco che il figlio dorma o sia sveglio, sorrida o strilli, si agiti o ammiri tranquillo il mondo che lo circonda. Quando è costretta a dargli da mangiare o da bere, quando deve cullarlo per farlo addormentare, lo fa di malavoglia, come un dovere da adempiere, per evitare di essere disturbata troppo dai suoi strilli o di essere incolpata dalla suocera o dal marito di disinteressarsi del bambino. Il suo momento più felice è quando può depositare il figlio in mani altrui, non importa quali. Possono essere le mani del marito, quelle della madre o della suocera, quelle della baby-sitter o della tata. L’importante è che qualcuno le tolga quel peso e quell’incombenza, così che possa ritornare alle sue occupazioni preferite.
  • È rigida nelle cure e nella soddisfazione dei bisogni del neonato: ‹‹Se il pediatra mi ha detto che devo allattarlo ogni quattro ore è inutile che lui strilli: se non sono trascorse le quattro ore io il latte non glielo do››. ‹‹Il pediatra mi ha raccomandato di tenerlo ben coperto e quindi è inutile che lui scalci infastidito dal caldo per cercare di togliersi le coperte che gli ho messo addosso, io continuerò a rimetterle››.
  • Non è capace di leggere i bisogni del figlio, né riesce a comprendere gli oscuri misteri del pianto infantile, per cui non è coerente nei suoi atteggiamenti. Spesso, quando il bambino piange, mette in pratica in maniera altalenante i consigli ricevuti, senza mai essere in grado di capire fino in fondo se ciò che sta facendo sia un bene oppure no, se i suoi comportamenti avranno degli effetti positivi o negativi.
  • Ha notevoli difficoltà ad apprendere dagli errori, pertanto le indicazioni suggerite dagli atteggiamenti del figlio, ma anche quelle espresse dalle persone che la circondano o dai medici consultati, non modificano o modificano molto poco il suo errato comportamento.
  • Si chiede ogni giorno: ‹‹Cosa ho fatto di male per essere nata donna e quindi dover accudire questo mostriciattolo chiamato bambino?››
  • Vede la sua realizzazione in tutto ciò che fa o potrebbe fare, piuttosto che in tutto ciò che vive o potrebbe vivere. Più si adopera più si sente capace e forte. Quando non si occupa di qualcosa si sente depressa, triste, e spenta. Sente perduto irrimediabilmente il tempo trascorso ad occuparsi di cose ‹‹che tutte le donne sono capaci di fare››, proprio per la loro biologia femminile, come mettere al mondo un bambino, allattarlo, pulirlo, vezzeggiarlo. Queste azioni prettamente materne le giudica insulse oltre che noiose ed indegne di una vera donna.

Se dovessimo sintetizzare, potremmo allora dire che una madre è “cattiva” quando non riesce, vuoi per i suoi limiti, vuoi per sue scelte, a soddisfare e vivere con gioia i bisogni fisici e psicoaffettivi del suo bambino. Pertanto la quantità, la durata e l’intensità delle frustrazioni che gli fa subire sono eccessive.

Da quanto abbiamo detto si può concludere che l’appagamento affettivo di un bambino piccolo non si misura solo dalle generiche manifestazioni di simpatia o dalle parole amorose pronunciate nei suoi confronti. La soddisfazione affettiva è fatta di impegno nei confronti dei suoi bisogni fisici e psicologici, impegno continuativo e fattivo, espresso e attuato in un clima d’amore, di gioia, di serenità ed equilibrio (De Negri e altri, 1970, p.143).[6]


[1] Cfr. P. A. OSTERRIETH, Introduzione alla psicologia del bambino, Op. cit., p. 55.

[2] Cfr. J. BOWLBY, Costruzione e rottura dei legami affettivi, Op. cit., p. 51

[3] Cfr. J. BOWLBY, Costruzione e rottura dei legami affettivi, Op. cit., p. 52.

[4] Ibidem.

[5] S. Wolff, Paure e conflitti nell’infanzia, Op. cit., p. 8.

[6] Cfr. M. DE NEGRI M. e altri, Neuropsichiatria infantile, Op. cit., p. 143.

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